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Gli assassinii della Rue MorgueGli assassinii della Rue Morgue

di Edgar Allan Poe. Dall’incipit del libro:

Le facoltà mentali che si sogliono chiamare analitiche sono, di per se stesse, poco suscettibili di analisi. Le conosciamo soltanto negli effetti. Fra l’altro, sappiamo che, per chi le possiede al piú alto grado, sono sorgente del piú vivo godimento.
Come l’uomo forte gode della sua potenza fisica e si compiace degli esercizi che mettono in azione i suoi muscoli, cosí l’analista si gloria di quella attività spirituale che serve a «risolvere». E trova piacere anche nelle occupazioni piú comuni purché diano gioco al suo talento. Cosí gli piacciono gli enigmi, i rebus, i geroglifici; e nelle soluzioni dimostra un acume che al discernimento volgare appare soprannaturale. E i risultati, abilmente dedotti dalla stessa essenza e anima del suo metodo, hanno veramente tutta l’aria dell’intuito. La facoltà di risolvere è probabilmente molto rinforzata dallo studio delle matematiche e in modo particolare dell’altissimo ramo di questa scienza che – impropriamente e solo in ragione delle sue operazioni in senso retrogrado – è stata chiamata analisi, come se fosse proprio l’analisi per eccellenza. Tuttavia il calcolo non è in se stesso un’analisi. Un giocatore di scacchi, per esempio, fa l’uno senza perdersi con l’altra. Ne viene di conseguenza che, riguardo ai suoi effetti sul carattere mentale, il gioco degli scacchi è di solito sopravvalutato, e di molto.

L'assassinio di Via BelpoggioL’assassinio di via Belpoggio

di Italo Svevo. Dall’incipit del libro:

Dunque uccidere era cosa tanto facile? Si fermò per un solo istante nella sua corsa e guardò dietro a sé: Nella lunga via rischiarata da pochi fanali vide giacere a terra il corpo di quell’Antonio di cui egli neppure conosceva il nome di famiglia e lo vide con un’esattezza di cui subito si meravigliò. Come nel breve istante aveva quasi potuto percepirne la fisionomia, quel volto magro da sofferente e la posizione del corpo, una posizione naturale ma non solita. Lo vedeva in iscorcio, là sull’erta, la testa piegata su una spalla perché aveva battuto malamente il muro; in tutta la figura, solo le punte dei piedi ritte e che si proiettavano lunghe lunghe a terra nella scarsa luce dei lontani fanali, stavano come se il corpo cui appartenevano si fosse adagiato volontario; tutte le altre parti erano veramente di un morto, anzi di un assassinato. Scelse le vie più dirette; le conosceva tutte ed evitava i viottoli per i quali non direttamente si allontanava. Era una fuga smodata come se avesse avuto le guardie alla calcagna. Quasi gettò a terra una donna e passò oltre non badando alle grida d’imprecazione ch’ella gli lanciava.

Per la sua bocca, di Luciano ZuccoliPer la sua bocca

di Luciano Zuccoli. Dall’incipit del libro:

Non si stava male in quella pensione. Eravamo sette: sei uomini e una donna. La donna si chiamava Eulalia, mi pare; Eulalia Delfranco; non bella e non brutta, vestiva con accuratezza, compariva silenziosa all’ora di tavola e di rado faceva udir la sua voce, se non le si rivolgeva la parola. Usciva spesso, ritornava tardi, aveva abitudini guardinghe e silenziose. Subito ci aveva fatto comprendere che sarebbe stato inutile tentar di sedurla. L’ho incontrata parecchie volte in istrada; e l’eleganza della sua linea, la disinvoltura del suo parlare quand’era accompagnata da un uomo o da un’amica, mi sono sempre parse in contrasto curioso con l’atteggiamento cauto e dimesso in cui si ammantava quand’era con noi. Gli uomini: due impiegati, due ufficiali, il principe e io. Il principe vantava una trentina di titoli nobiliari; non credo che a ciascuno corrispondesse un milione, ma doveva tuttavia esser ricco. Sottile come un ago, testa piccola, volto ovale con piccola barba bionda; mani bellissime. Entrava, sorrideva a tutti, parlava cortesemente, fingeva di non accorgersi che qualcuno mangiava male col coltello in bocca ad ogni istante o con lo stuzzicadenti sempre tra le dita. Se ne andava pel primo: dopo colazione tornava nelle sue stanze; la sera qualche volta a teatro, qualche volta a far visita. Ma lo udivo rincasare sempre prima di mezzanotte.

Sogno di una notte di mezza estate, di William Shakespeare

Sogno di una notte di mezza estate

di William Shakespeare.

Sogno di una notte di mezza estate (titolo originale: “A Midsummer Night’s Dream”) fu scritta probabilmente tra il 1593 e il 1595. E’ senza dubbio una delle commedie più conosciute e apprezzate di William Shakespeare.

L’opera si compone di tre storie collegate tra loro dalla celebrazione del matrimonio tra Teseo, duca di Atene, e Ippolita, regina delle Amazzoni. La prima storia racconta di quattro giovani ateniesi: Lisandro e Demetrio che amano Ermia, Ermia che ama Lisandro ed Elena che ama Demetrio. La trama è complicata dal padre di Ermia, che le impone di sposare Demetrio. Ernia e Lisandro decidono così di fuggire nei boschi, accompagnati da Elena e Demetrio, ma i quattro si perdono nel buio e nelle loro schermaglie amorose. La seconda storia parla di Oberon e Titania, rispettivamente re degli elfi e regina delle fate, che per il matrimonio fra Teseo e Ippolita si recano nel medesimo bosco dei quattro giovani fuggitivi. Ancora nel bosco si svolge la terza storia, incentrata su una compagnia di artigiani che vuole mettere in scena una rappresentazione teatrale sul tema di Piramo e Tisbe (qui vale la pena segnalare il personaggio di Nick Bottom, uno dei più apprezzati personaggi comici di Shakespeare e l’amatissimo Puck, motore delle azioni, che chiude l’opera).

In Sogno di una notte di mezza estate le invenzioni letterarie e i colpi di scena si susseguono, come gli scherzi e gli equivoci. Ma senza mai perdere delicatezza e poesia.