Questo volume, edito postumo in una prima edizione nel 1919 e successivamente nel 1920, contiene alcuni scritti di Neera, a volte usciti come articoli in riviste, a volte per altri canali.
Il primo, quello più ampio e che apre la raccolta, è dedicato ad Alberto Sormani, scrittore che era stato amico d’elezione di Neera. È la riedizione di un opuscolo pubblicato a Milano nel 1898, a quasi cinque anni dalla prematura morte del giovane intellettuale, e di cui la scrittrice stessa inviò copia a Luigi Pirandello. Venne rinvenuta la lettera di riposta, quando il nipote di Neera, Corradino Martinelli, affidò tutte le carte ad Antonia Arslan perché ne curasse il riordino e lo studio. Il testo qui riportato esprime il dolore profondissimo della scrittrice per la perdita di colui che avrebbe potuto formarsi come un profondo e colto scrittore e che era diventato per lei un punto di riferimento fondamentale. Studiando i casi della storia, Neera afferma quanto sia frequente che all’origine dell’uomo di genio, e così fu anche per Sormani, ci sia “per madre una donna di speciale sensibilità”. La sua teoria è che il genio venga tenuto in incubazione e si maturi nel cuore caldo ed amoroso di una madre straordinaria. In ciò va ricercata la causa principe della mancanza di genio femminile, in quanto la donna è solo da interpretarsi come un elemento di trasmissione ereditaria di genio. Pur possedendo la predisposizione ad esso, la donna va frenata nella sua creatività, perché ogni suo successo in campo intellettuale è “un furto all’uomo futuro”.
Per fortuna in altre pagine del libro questa tesi non viene ribadita con altrettanta determinazione, tanto che la stessa Arslan in occasione del Festival della letteratura di Mantova del 2009 proponeva la riscoperta di Neera, come scrittrice che nutriva in sé germi di protofemminismo. Altre pagine di questa miscellanea sono dedicate ad amori infelici e poco noti, all’ombra di grandi uomini. Così si racconta dell’amore, corrisposto ma sfortunatissimo, tra Giuseppe Mazzini e Giuditta Sidoli, patriota e donna moderna ed emancipata. O quello della nobilissima Mathilde Wesendonck poetessa col grande Richard Wagner, consumato in un duplice adulterio che “doveva ripugnare innegabilmente alle loro anime elette”.
Si passa ad alcuni ricordi storici e letterari come quello di Etienne Eggis, scrittore bohémien svizzero, del poeta Luigi Bertacchi – del quale qui in Liber Liber è possibile leggere alcune raccolte di liriche – o di Pauline de Montmorin Saint-Hérem, contessa di Beaumont, temeraria figura di aristocratica ed intellettuale, coraggiosa ed indomita, passata attraverso la rivoluzione francese e spirata di tubercolosi poco più che trentenne tra le braccia dell’amante François-René de Chateaubriand, dopo una breve vita che è poco definire avventurosa. Morta a Roma, le sue spoglie sono custodite nella Chiesa di san Luigi de’ francesi. Meno benevolo è il ritratto di Emma Lyon, Lady Hamilton, un’avventuriera inglese, passata alla storia per la straordinaria bellezza e per la relazione con l’ammiraglio Horatio Nelson. Queste storie d’amore, spesso tormentate per le donne che le hanno vissute, fanno riflettere Neera sul rapporto che i grandi uomini, gli uomini famosi per ingegno, genio, coraggio, ardimento, hanno verso l’amore:
«Tutte le osservazioni da me fatte in proposito mi guidarono alla conclusione che i grandi uomini dinanzi al mistero dell’amore sono eguali agli uomini medî, ed anche ai piccoli uomini, cioè ciechi.»
Neera racconta poi dei travestimenti che nel secolo XVIII erano un divertimento diffuso e divennero un fenomeno di vaste proporzioni nel periodo del romanticismo. Mascherarsi è per i più timidi darsi coraggio, per le donne è sentirsi protette. E sotto il giogo della dominazione austriaca in Italia, il camuffarsi divenne quasi una forma di eroismo, quando sotto le vesti di maschere satiriche si manifestava l’amor di patria. A tal proposito è veramente godibilissima, un gioiello, la vicenda di Charles-Geneviève-Louis-Auguste-André-Timothée d’Éon de Beaumont, conosciuto come Chevalier d’Éon, nato uomo nel 1728 in Francia e deceduta donna a Londra nel 1810. Dopo una galleria di ritratti di donne belle, famose, importanti e alcune pagine dedicate a Maria de’ Medici ed al periodo di italianità al quale diede vita presso la corte di Francia, Neera scrive dei due fratelli Zuccari, Taddeo e Federico, citando il libro di Corrado Ricci che ebbe il pregio grandissimo di risuscitare i disegni della Divina Commedia, opera dei fratelli, insigni pittori. Quest’opera, corredata delle immagini, è qui in Liber Liber.
Terminata la galleria dei Profili, si passa ad alcune riflessioni su vari argomenti – l’educazione dei fanciulli, la scuola, l’atrofia dei sentimenti, … – , che nella pubblicazione vengono riuniti sotto la voce Impressioni. Particolare è l’articolo dedicato ad Eleonora Duse, ritratta sempre bellissima ma sempre malinconica. Quando invece la sua bellezza più straordinaria è il sorriso, un sorriso mai ritratto, mai fotografato, e che Neera invita la grande attrice a mostrare.
Il volume si chiude con piccoli, intimi ritratti di città, resoconti di viaggio di luoghi visitati nel corso della vita: Capodistria cuore dell’irredentismo; Londra la metropoli internazionale; l’Olanda; un prezioso angolo di Parigi fuori dalla rotte turistiche dei primi del ʼ900; la graziosissima Colmar in Alsazia, sempre contesa tra francesi e tedeschi, di cui descrive lo splendido Musée d’Unterlinden con La Crocifissione di Matthias Grünewald. Ahimè, Neera morì solo quattro anni prima che venisse aperto – nel 1922 – il particolarissimo Museo dedicato allo scultore Frédéric Auguste Bartholdi (1834-1904), nato a Colmar, il quale, con la collaborazione di Gustave Eiffel, realizzò nel 1886 la Statua della Libertà, donata dalla Francia agli Stati Uniti.
Sinossi a cura di Claudia Pantanetti, Libera Biblioteca PG Terzi APS
Dall’incipit del primo brano Un idealista. Alberto Sormani:
Sono quasi cinque anni; e il tempo che tutto cancella, che tutto affievolisce, non ha ancora cancellata, non ha affievolita la indimenticabile memoria.
Era un giorno della fine di giugno, verso sera. Il caldo, quell’anno, aveva anticipato la sua afa snervante. Egli entrò nel mio salotto un po’ pallido e con un abbandono affatto insolito si lasciò cadere sulla poltrona. ‒ Sono stanco ‒ disse.
Chi lo avrebbe pensato, allora, che quella doveva essere la stanchezza ultima, la stanchezza misteriosa e fatale ‒ a ventisei anni, nel vigore della salute e delle forze?
Sono stanco, aveva detto Lui, che non si confessava stanco mai, mai scoraggiato, mai dômo. Lo guardai in viso e mi parve mesto. Soggiunse: ‒ ho gran bisogno di andare in campagna. ‒ Mi afferrai a questa speranza, esortandolo a partire subito, persuasa che nel suo dolce
Pomelasca si sarebbe riavuto prontamente. Poi parlammo d’altro.
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